EVA


Eva chiuse la valigia e guardò l’orologio, tra due ore avrebbe preso il treno che l’avrebbe riportata in Italia. Amava viaggiare in treno, riusciva a rilassarsi, le piaceva scrutare i visi degli altri passeggeri e immaginare le loro storie, si perdeva ad osservare il paesaggio scorrere rapidamente con colori sfumati e sovrapposti. In treno aveva scritto le sue pagine migliori. 

Quel giorno non sarebbe stato un viaggio sereno, lasciava la città che per tre anni l’aveva accolta e fatta sentire a casa, la lasciava con un un terribile peso sul cuore.

Si voltò, osservò la piccola mansarda in cui aveva vissuto. L’avrebbe lasciata intatta, aveva messo in valigia solo qualche fotografia e pochi oggetti a cui era particolarmente legata. Ogni angolo di quella casa le ricordava qualcosa: il dipinto sulla parete della camera da letto, la boccetta del suo profumo preferito, ormai quasi finito, sulla mensola del bagno, la poltrona davanti alla finestra del minuscolo soggiorno. 

Andò a sedersi e scostò un po’ la tenda, le tornò in mente il motivo per cui decisero di vivere in quella casa. Come allora, era una calda giornata primaverile, il sole brillava sui tetti della Ville Lumière, in lontananza spiccava imponente la Tour Eiffel. Quella vista la fece innamorare, ancora una volta, di quella splendida città che riusciva a stupirla ogni giorno. 

Era arrivata a Parigi dopo la laurea, con una borsa di studio per un master in storia dell’arte alla Sorbonne. Le piaceva studiare, le era sempre piaciuto, fin da quando era bambina, curiosa e desiderosa di imparare. Crescendo aveva scoperto di avere una particolare propensione per lo studio dell’arte. Si era laureata con una tesi dedicata agli impressionisti francesi. Il primo posto in cui si recò appena arrivata a Parigi fu il Musée d’Orsay. Ottenere quella borsa di studio le era sembrato un sogno, e come in un sogno aveva vissuto gli ultimi tre anni. 

Amava passeggiare per ore, da sola, con il suo taccuino pieno zeppo di annotazioni, promemoria, pensieri e disegni. Le capitava di sedersi su una panchina e scrivere, di getto, perdendo la cognizione del tempo, per poi dover correre per non arrivare a lezione in ritardo, o per non rientrare a casa con il buio. Glielo ripeteva ogni giorno, non riusciva a stare tranquillo se a una certa ora della sera non la trovava già a casa. 

Spesso Eva tornava a casa e gli mostrava entusiasta i biglietti di una mostra d’arte o di uno spettacolo teatrale, e poi trascorrevano i giorni seguenti nell’impaziente attesa dell’appuntamento. Condividevano tantissime passioni. Una di queste era nata proprio lì a Parigi, per stare con lui, proprio lei che in ventiquattro anni non era mai entrata in uno stadio di calcio, ora non perdeva una partita e conosceva anche i nomi dei giocatori. 

Sorrise mestamente, guardò l’orologio: doveva uscire. Prese la sua unica valigia, andò dritta verso l’uscita senza mai voltarsi, sul pianerottolo tentennò un attimo, poi si chiuse la porta alle spalle e crollò sul primo scalino con il volto tra le mani. In pochi minuti le tornò alla mente l’immagine di poche settimane prima, l’incidente, le sirene, la corsa in ospedale. Il cimitero.

Era tardi, doveva andare, non poteva correre, doveva muoversi con anticipo. 

Questa volta, seduta nel suo vagone, non avrebbe fantasticato sulla vita dei suoi sconosciuti compagni di viaggio, aveva troppi pensieri per la testa. Non avrebbe guardato fuori con aria sognante, i suoi sogni si erano infranti quella sera di fine marzo. 

Il viaggio fu lungo, le sembrò interminabile. Non riuscì a riposare, teneva una mano sulla pancia, con l’altra reggeva una fotografia, immaginava i tratti di quel viso che avrebbe conosciuto fra sette mesi. 

Sarebbe diventata mamma. 

Glielo aveva detto, guardando il cielo stellato, con gli occhi pieni di lacrime. 

Lui l’avrebbe guardata, per tutta la vita, attraverso nuovi occhi. 

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